"Custodisci l'ordine e l'ordine ti custodirà."
(Regola di San Benedetto)
Questa massima mi ha accompagnato in questi ultimi anni, pieni di angoscia ma anche colmi dei doni di Fede, Speranza e Carità. Ed è la prima cosa che mi è venuta in mente appena ho scorto questo fiore (bocca di Leone), che pensavo essere una banale erbaccia, ma che si è rivelato in tutto il suo splendore da un giorno all'altro. Si trova nel luogo dove mi trovo per lavoro (presso il lago di Garda). C'è un "Ordine" che sottende a tutte le cose, che fa fiorire le rose, ma che permette anche alle spine di esistere. Tutto ha un fine. "Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno." (Romani 8:28).
Di seguito una riflessione sui tempi che stiamo vivendo, che ho ripreso per intero dal canale Telegram de "Il Giusnaturalista":
L'ANGOLO DEL GIUSNATURALISTA:
L’EMERGENZA PERMANENTE COME NEGATRICE DELL’ORDINE
Il tratto caratteristico del nostro tempo non è tanto la successione di eventi drammatici, crisi sanitarie, conflitti armati, instabilità economiche e climatiche, quanto il modo in cui essi vengono compresi e vissuti: non più come accadimenti da inscrivere in un quadro più ampio, ma come minacce assolute che sospendono ogni regola, imponendo la logica dell’eccezione. L’"emergenza" diventa la chiave universale della convivenza, al punto che il vivere politico e sociale si riduce a una gestione continua del provvisorio. In tale scenario, la normalità non appare più come lo sfondo stabile dell’esistenza, ma come un intervallo fragile e illusorio tra due crisi. Tuttavia, una vita comune fondata sulla precarietà perenne è intrinsecamente contraddittoria. L’emergenza, per sua natura, presuppone un ordine di riferimento da cui si devia e al quale si tende a ritornare; se l’eccezione diventa regola, viene meno la stessa categoria dell’eccezione. Il fatto che la contemporaneità cerchi di stabilizzare l’instabilità rivela dunque un paradosso: si proclama l’assenza di ogni ordine oggettivo e, nello stesso tempo, si continua a presupporlo come criterio implicito. La ragione, nel suo esercizio più elementare, testimonia l’impossibilità del caos come principio ultimo. Ogni discorso, per essere tale, esige coerenza; ogni giudizio presuppone la distinzione tra vero e falso; ogni azione implica la percezione di un fine. Se l’ordine fosse pura costruzione arbitraria, anche l’affermazione che "non esiste alcun ordine" sarebbe priva di valore, perché non si darebbe nessun criterio logico che ne garantisca il senso. La negazione dell’ordine, dunque, si autoconfuta: essa utilizza la razionalità che pretende di dissolvere. Non si tratta solo di un’astrazione. L’esperienza quotidiana attesta che le cose hanno una struttura propria, indipendente dalla volontà umana. La vita biologica obbedisce a leggi che non inventiamo; le relazioni sociali si sfaldano se non riconoscono la giustizia; la libertà non si esercita se non trova una misura. Ogni tentativo di sostituire a questa oggettività un artificio puramente convenzionale conduce a conflitti insolubili, perché pretende di fondare l’agire su ciò che, per sua natura, è mutevole e instabile. L’uomo può certo violare l’ordine, esercitando su di esso la sua volontà di potenza, ma non può annullarlo: ne paga il prezzo nel disfacimento delle istituzioni, nell’angoscia esistenziale, nella sequenza infinita di crisi che non trovano composizione. Contro la tentazione relativistica, occorre riconoscere che l’ordine delle cose non è un prodotto della coscienza, ma il presupposto della sua attività. È l’intelligibilità stessa del reale a mostrarlo: se l’uomo può comprendere, prevedere, calcolare, è perché l’essere non è flusso indeterminato, ma possiede una struttura che la mente coglie e a cui deve conformarsi. La realtà è "cosmo", non "caos"; ed è questo carattere oggettivo a fondare la possibilità della scienza, della politica e della vita morale. L’odierna civiltà dell’emergenza nasce dallo smarrimento di tale evidenza. Riducendo l’ordine a semplice convenzione, essa si condanna a inseguire il divenire come se fosse assoluto. Ora, un tale inseguimento è senza fine, perché nulla può arrestare ciò che, per definizione, non ha misura. La società che rifiuta l’ordine è costretta a vivere di eccezioni, e la politica che non riconosce un fine intrinseco si degrada a tecnica della paura. L’alternativa non consiste in nuove strategie di controllo, né in una raffinata amministrazione delle crisi, bensì in un atto di intelligenza: riconoscere che la natura delle cose è, e che la ragione la scopre, non la inventa. In questo riconoscimento si fonda la possibilità di un’autentica vita comune, non più ridotta al calcolo dell’immediato, ma ordinata a beni che non dipendono dal mutare delle circostanze.
L’EMERGENZA PERMANENTE COME NEGATRICE DELL’ORDINE
Il tratto caratteristico del nostro tempo non è tanto la successione di eventi drammatici, crisi sanitarie, conflitti armati, instabilità economiche e climatiche, quanto il modo in cui essi vengono compresi e vissuti: non più come accadimenti da inscrivere in un quadro più ampio, ma come minacce assolute che sospendono ogni regola, imponendo la logica dell’eccezione. L’"emergenza" diventa la chiave universale della convivenza, al punto che il vivere politico e sociale si riduce a una gestione continua del provvisorio. In tale scenario, la normalità non appare più come lo sfondo stabile dell’esistenza, ma come un intervallo fragile e illusorio tra due crisi. Tuttavia, una vita comune fondata sulla precarietà perenne è intrinsecamente contraddittoria. L’emergenza, per sua natura, presuppone un ordine di riferimento da cui si devia e al quale si tende a ritornare; se l’eccezione diventa regola, viene meno la stessa categoria dell’eccezione. Il fatto che la contemporaneità cerchi di stabilizzare l’instabilità rivela dunque un paradosso: si proclama l’assenza di ogni ordine oggettivo e, nello stesso tempo, si continua a presupporlo come criterio implicito. La ragione, nel suo esercizio più elementare, testimonia l’impossibilità del caos come principio ultimo. Ogni discorso, per essere tale, esige coerenza; ogni giudizio presuppone la distinzione tra vero e falso; ogni azione implica la percezione di un fine. Se l’ordine fosse pura costruzione arbitraria, anche l’affermazione che "non esiste alcun ordine" sarebbe priva di valore, perché non si darebbe nessun criterio logico che ne garantisca il senso. La negazione dell’ordine, dunque, si autoconfuta: essa utilizza la razionalità che pretende di dissolvere. Non si tratta solo di un’astrazione. L’esperienza quotidiana attesta che le cose hanno una struttura propria, indipendente dalla volontà umana. La vita biologica obbedisce a leggi che non inventiamo; le relazioni sociali si sfaldano se non riconoscono la giustizia; la libertà non si esercita se non trova una misura. Ogni tentativo di sostituire a questa oggettività un artificio puramente convenzionale conduce a conflitti insolubili, perché pretende di fondare l’agire su ciò che, per sua natura, è mutevole e instabile. L’uomo può certo violare l’ordine, esercitando su di esso la sua volontà di potenza, ma non può annullarlo: ne paga il prezzo nel disfacimento delle istituzioni, nell’angoscia esistenziale, nella sequenza infinita di crisi che non trovano composizione. Contro la tentazione relativistica, occorre riconoscere che l’ordine delle cose non è un prodotto della coscienza, ma il presupposto della sua attività. È l’intelligibilità stessa del reale a mostrarlo: se l’uomo può comprendere, prevedere, calcolare, è perché l’essere non è flusso indeterminato, ma possiede una struttura che la mente coglie e a cui deve conformarsi. La realtà è "cosmo", non "caos"; ed è questo carattere oggettivo a fondare la possibilità della scienza, della politica e della vita morale. L’odierna civiltà dell’emergenza nasce dallo smarrimento di tale evidenza. Riducendo l’ordine a semplice convenzione, essa si condanna a inseguire il divenire come se fosse assoluto. Ora, un tale inseguimento è senza fine, perché nulla può arrestare ciò che, per definizione, non ha misura. La società che rifiuta l’ordine è costretta a vivere di eccezioni, e la politica che non riconosce un fine intrinseco si degrada a tecnica della paura. L’alternativa non consiste in nuove strategie di controllo, né in una raffinata amministrazione delle crisi, bensì in un atto di intelligenza: riconoscere che la natura delle cose è, e che la ragione la scopre, non la inventa. In questo riconoscimento si fonda la possibilità di un’autentica vita comune, non più ridotta al calcolo dell’immediato, ma ordinata a beni che non dipendono dal mutare delle circostanze.
Solo in questa prospettiva l’emergenza riacquista il suo significato autentico: non condizione permanente, ma deviazione transitoria rispetto a un ordine che precede e fonda. Così, il vero compito che si impone al nostro tempo non è quello di moltiplicare risposte tecniche, ma di ricondurre l’azione politica e sociale a una misura superiore. È il recupero dell’ordine oggettivo a spezzare la spirale delle emergenze senza fine, restituendo all’uomo la possibilità di vivere non sospeso sull’angoscia, ma radicato nella verità che sostiene l’essere.
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